Akira di Katsuhiro Ōtomo. Giappone 1989
di Valerio Carta
16 luglio 1988. Panoramica della città di Tokyo. Clacson che suonano. Vento che soffia. Un cerchio di luce bianca in lontananza a cui fa seguito una devastante esplosione. Il fungo atomico che si espande e lentamente divora l’intero agglomerato urbano. Silenzio. Schermo bianco.
Anno 2019. Una panoramica della città di Nuova-Tokyo, trentuno anni dopo la Terza Guerra Mondiale. Schermo nero, sul quale si proietta una frase in rosso: AKIRA.
Era il 1960 quando i Flinstonesottennero la loro prima TV dando modo alla popolazione americana in primis e a quella mondiale in secundis di incollarsi allo schermo durante la proiezione di macchine con pietre al posto delle ruote e dinosauri utilizzati come aereoplani. In quegli anni, dall’altra parte del mondo, precisamente in Giappone, il cinema era monopolizzato dalle opere epiche di Akira Kurosawa, celebre regista che terminò il lavoro di Yasujiro Ozu portando il cinema giapponese a divenire una delle grandi potenze mondiali cinematograficamente. Il cinema in Oriente si stava evolvendo e in Occidente l’animazione assumeva toni meno impegnativi rispetto all’epicità della Disney, target che racchiudeva più generazioni di persone. Katsushiro Otomo durante quella serie di avvenimenti storici era solo un ragazzo che iniziava a produrre i suoi primi lavori animati, con uno stile progressista tipico della sua terra natia.Nel 1989, conAkira, Otomo firma la sua magnum opus, un kolossal supportato da una delle più ingenti produzioni di tutti i tempi. L’evoluzione di questo film, da manga, a film animato, a fenomeno culturale in Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti per citare tre grandi potenze mondiali, non ha segnato solamente il cinema d’animazione, ma ha contribuito a rivoluzionare i canoni della fantascienza, processo già in atto da pochi anni per mezzo del Blade Runner di Ridley Scott (1982). Il cinema d’animazione, notoriamente, è il sottogenere di arte cinematografica che più di tutti fatica ad arrancare, supportato da uno zoccolo duro di fans e snobbato dagli amanti della live-action, ma Akira non è solo questo, è cyber-punk portato ai livelli più estremi: se Blade Runner è il classico del movimento in occidente, Akira è il suo corrispettivo in oriente.
Nella stordente sequenza iniziale, in un tripudio di luci, suoni ed immagini che ci riconducono ad un futuro eccentrico nelle apparenze, otteniamo una chiara idea di ciò che vedremo nel corso dell’opera. La terza guerra mondiale non ha devastato solo la città di Tokyo, ma anche gli ideali della gente. I ragazzi trascorrono le loro giornate in scuole che cadono letteralmente a pezzi, tra insulti e soprusi con gli insegnanti, e di notte danno libero sfogo al loro rancore sfidandosi in folli corse motociclistiche dove tutto è concesso. Il rombo dei motori durante l’opera è costante tanto quanto l’impatto scenico, con la profondità studiata ad hoc per apparire più reale del reale. La colonna sonora dovrebbe essere studiata nelle scuole di cinema per spiegare come si produce un degno suono extra-diegetico: la musica che accompagna le scene ridonda dentro le stesse, l’idea prodotta è quella di un futuro nebbioso, troppo legato al passato, un’idea di velocità – resa concreta dalle corse motociclistiche – distorta, sulla quale sfuma il presente e quindi l’immobilità. Un frenetico movimento di immagini, luci e suoni che rischia di far perdere qualcosa allo spettatore poco attento in una prima visione, ma che soprattutto ha fatto perdere tutto ai personaggi del racconto.
Ogni opera futuristica, nella letteratura o nel cinema, ha un aspetto distopico che influenza la costruzione del racconto. Nelle opere di Asimov la distopia non era diretta ma apparente, da ricercare nell’animo umano del lettore. In 1984 di George Orwell ogni lettera del romanzo è in funzione del terrificante futuro distopico dipinto dallo scrittore inglese. In Blade Runner è la storia che costruisce la distopia. In Akira, invece, l’aspetto distopico è qualcosa che è chiaramente presente sin dall’inizio, ma non è chiaro sinché non emerge in superficie. È un lento processo, che passa per delle tappe: una storia di corruzione a Nuova Tokyo, con lo Stadio Olimpico – teatro di un finale memorabile – che in realtà è un sotterfugio per nascondere gli sprechi di una classe politica poco attenta a gestire la situazione del dopoguerra. Una storia con elementi sovrannaturali, come lo stesso Akira, vero protagonista dell’opera che incolla tutti i personaggi del racconto ma che in verità non compare mai sulla scena. Non è solamente un’autocelebrazione artistica da parte di Otomo, bensì un film di denuncia verso molti aspetti della società giapponese. Akira ha uno stile universale per la struttura della trama, giapponese per quanto riguarda i dettagli che la compongono. I due personaggi principali sono due ragazzi di nome Kaneda e Tetsuo. Il primo è a capo di una banda di motociclisti, il ragazzo forte d’animo e valoroso, il secondo si sente sfruttato da Kaneda e gli anni trascorsi subendo prese in giro dai ragazzi più grandi gli hanno donato una visione malvagia della sua vita frustrata, in cui desidera acquisire un’immagine di leadership. È lui il vero protagonista/antagonista della storia, catturato dall’esercito per sfruttare il suo enorme potere, che in seguito userà per fare ciò che ha sempre desiderato: comandare, e vendicarsi di Kaneda. Paradossalmente la caratterizzazione dei personaggi è il punto debole dell’opera; nel cinema giapponese Kurosawa, Kitano e Ozu animano personaggi distaccati dai canoni occidentali, ognuno con un proprio modo di pensare fuori dalle righe in grado di catalizzare su di sé l’attenzione della storia; qui i personaggi sono costruiti in funzione della storia, con molti cliché occidentali – basti pensare al colonnello Shikishima, capo dell’esercito e consigliere politico, capace solo di digrignare i denti e sbattere pugni al tavolo – che rimangono passivi. Si può comunque giustificare in un’opera del genere Otomo, che ha spostato l’attenzione su Nuova-Tokyo e i personaggi di quel contesto non possono che esserne influenzati. Akira, però, rimane troppo in penombra durante certe parti del film, ed è il personaggio a cui viene data paradossalmente meno attenzione. Ci si aspetta di vederlo sbucare da un momento all’altro, ma non arriva mai, e non delude solo i personaggi, ma anche gli spettatori. Per buona parte del film ci si dimentica anche della sua presenza celata in preda all’attenzione verso la metamorfosi di Tetsuo. Ma questo ha un senso: Akira, prima di essere ogni altra cosa, è un simbolo, e come tutti i simboli finisce per essere mitizzato.
Per anni si è discusso di un possibile remake in live-action. Con l’evoluzione della tecnica cinematografica e il potenziamento degli effetti speciali sarebbe senz’altro possibile, ma non plausibile; Akira è un film che vive della propria animazione. Roger Ebert lo descrisse come un “esperienza extra-sensoriale” per lo spettatore, un sovraccarico di percezioni che influenzano il normale andamento della storia tanto che per qualcuno la trama potrebbe sembrare priva di senso. La reale concentrazione è sulle emozioni che gli effetti di questo futuro producono. Non avrebbe senso in live-action. Dragon Ball ha dimostrato che un successo planetario per i manga e per i vari film d’animazione può essere al tempo stesso un flop colossale nel cinema, per la difficoltà di ricreare con attori in carne ed ossa quella specie di magia tipicamente giapponese. In Akira questo concetto è ancora più esasperato, perché non si tratta solo dei personaggi – e ricreare gli uomini con il volto da vecchi e i corpi da bambini non funzionerebbe, perché siamo abituati a vederli animati – ma soprattutto di ambientazione. Gli inseguimenti con le motociclette forse funzionerebbero, ma a quale prezzo?
E qui arriviamo al punto cardine. Akira è un classico della fantascienza?
La fantascienza è un genere che ha avuto dei boom in diversi periodi della storia, con produzioni ingenti e talvolta pacchiane (soprattutto negli anni ’50 ad Hollywood) ma altre che hanno favorito lo sviluppo di convenzioni per affiancare alla stessa diversi sottogeneri. Così come Ed Wood era il maggiore esponente delle prime, Jack Arnold è stato capace di introdurre tematiche che prima eravamo in grado solo di leggere, precisamente negli scritti pulp degli anni ’30. Tra i grandi classici dello stesso periodo di Akira, troviamo Alien e Guerre Stellari: il primo si affianca all’horror, il secondo è influenzato dai film western degli anni ’60. Akira, rispetto a questi, è sì qualcosa di diverso, ma è anche fantascienza nuda e cruda, violenta visivamente e fisicamente. Non è un film per tutti. Non è un film per tutti i bambini. Non è un film neanche per tutti gli adulti, per quanto le tematiche drammatiche, fanta-politiche e per certi versi anche splatter sono evolute. Akira è un classico del cyber-punk, che nel vortice finale del film si mostra al mondo nella sua purezza, come Akira e come Tetsuo.